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La Via dei Briganti

E…state ad Amaroni è la proposta progettuale con la quale da oltre dieci anni il Comune di Amaroni concorre al rafforzamento dell’offerta culturale e turistica della Calabria, proponendo iniziative che esprimono il forte legame tra territorio, storia, tradizione, arte, tramandando il ricco patrimonio di cultura immateriale e demo-etno-antropologico di cui la popolazione è custode, che accresce la consapevolezza delle comunità autoctone e al contempo favorisce l’attrattività di beni e località in chiave turistica.

L’annualità 2019, dopo l’interruzione causata dalle limitazioni imposte dal Covid 19, riprende il suo corso e si conclude con La Via dei Briganti (tra storia e leggenda).

Il Brigantaggio, tralasciando le interpretazioni che lo riducono a mero fenomeno banditistico, nella zona delle Pre Serre, di cui fa parte Amaroni, come in tante altre realtà territoriali Italiane, fu un’azione di ribellione, seppur feroce, condotta da uomini e donne nel nome della giustizia e della libertà. Di questo sono testimonianza i numerosi documenti custoditi c/o l’Archivio di Stato di diverse Provincie.

La scelta di dedicargli un evento è in linea con un progetto culturale storicizzato – qual’ è appunto E…state ad Amaroni – che rivendica l’essere espressione di un territorio e di una tradizione a forte connotazione rurale, con la loro identità storica, paesaggistica, culturale su cui fa leva la strategia di rilancio delle aree interne.

Il lavoro realizzato porta verso una dimensione sociale del brigante e delle sue azioni, guidate da un senso di riscatto, dalla necessità di costruire condizioni sociali migliori, dalle questioni legate alla distribuzione della terra, dalla necessità di affermare la propria identità.

Documenti/testimonianze redatti in Squillace nel 1862 riportano che all’indomani dell’Unità d’Italia le popolazioni fremessero per ottenere la divisione delle terre comunali, conducendo azioni di protesta al grido di: “atterra il municipio, atterra il sindaco, vogliamo divisi i terreni comunali”.[1]

Tra storia e leggenda Amaroni ripercorre la Via dei Briganti, tralasciandone l’aspetto politico, calandola in una dimensione sociale, umana, artistica.

Il nostro è un itinerario caratterizzato anche dal fascino e dal mistero che ancora oggi avvolgono il mito della “Pietra dei Briganti”, il grosso macigno che domina la zona impervia che costeggia loc. “Fosso Bata” dove si narra si nascondessero i briganti per sfuggire alla cattura.

Dal “Fondo Brigantaggio” dell’Archivio di Stato di Catanzaro emerge il dato storico dell’azione delle bande di briganti ad Amaroni così come nelle zone circonvicine. Il manifesto del Prefetto della Provincia di Calabria Ulteriore Seconda, B. Gusa, del 12 giugno 1864, riporta come figura di spicco amaronese il brigante Luigi Lagrotteria, per la cui cattura o uccisione era stato disposto un premio in ducati.

Luigi Lagrotteria fu ucciso dal compagno Tommaso Nesce, che ordì contro di lui un vero e proprio tradimento. Ciò si ricava dalla missiva trasmessa in data 2 luglio 1864 dal Capitano Taglietti – Comandante del Distretto di Borgia- nella quale si riporta la correità dello stesso Nesce e di altro brigante rifugiatosi in Centrico (verosimilmente Centrache) nelle azioni condotte dal Lagrotteria, poi tradito e ucciso per riscuotere la taglia[2].

La competenza a giudicare i briganti nel periodo post unitario era sottratta al giudice ordinario e affidata ai Tribunali Militari le cui procedure, meno garantiste, si allineavano perfettamente ai piani repressivi dell’esecutivo. Nel Fondo distinto per Tribunale Militare, di cui all’inventario pubblicato dal Ministero per i Beni Culturali nel 1998, si riporta come l’azione di repressione riguardasse anche il cosiddetto manutengolismo, ossia le forme di favoreggiamento e appoggio al brigantaggio per opera  dei contadini, che esprimevano così il loro insoddisfatto desiderio di pane, giustizia sociale e libertà; nella parte dedicata all’attività del Tribunale di Catanzaro si ritrovano i nomi di due detenuti di Amaroni, accusati di connivenza con i briganti, nello specifico, la banda di Bianchi Pietro: Muzzi Pietro Antonio, fu Nicola, proprietario, di anni 70, e Pingitore Francesco, fu Antonio, pecorajo, di anni 21[3]

La Via dei Briganti non solo tra storia e leggenda; il percorso prende vita anche attraverso l’arte pittorica di Massimo Lagrotteria, che ha realizzato otto dipinti olio su tela custoditi presso Palazzo Canale, sede Municipale, che sono stati riprodotti in gigantografie installate permanentemente nel Centro Storico Cittadino, nel cuore dell’abitato, “A’ Rughicedha”.

Quest’affascinante stradina, che nel nome racchiude le sue caratteristiche morfologiche (piccola via), si districa dolcemente tra i dislivelli del terreno, delineando l’abitato come le rughe di un viso segnato dal passare del tempo.

Preservando l’identità, la memoria storica e personale degli amaronesi la viuzza si dispiega agli occhi del passante tratto dopo tratto, come un ricordo dei tempi passati che riaffiorato alla memoria suscita profonde emozioni. Un luogo celato e protetto, che evoca il fascino dei “nascondigli” impervi scelti dai briganti durante la fuga.

IROES/ΗΡΩΕΣ

Considerazioni sul progetto La via dei briganti

 

Premessa

L’artista Massimo Lagrotteria, alla ricerca di un’ispirazione che potesse dargli l’abbrivio per sviluppare una serie di opere riguardanti la propria terra d’origine (la Calabria), in particolar modo focalizzando la propria attenzione su alcune figure mitologiche della Magna Grecia (o, più in generale, della cultura ellenica ed ellenistica), si è “imbattuto” in materiale storico di recente scoperta, piuttosto interessante.

Nell’estate 2019 sono stati infatti rinvenuti diversi taccuini, sui quali alcuni briganti (ribelli che si opposero duramente all’appena nato Regno d’Italia) scrissero annotazioni durante il lungo periodo della loro lotta[4]. Si tratta di veri e propri “Diari della latitanza[5]” – come sono stati denominati – ricchi di annotazioni relative allo stato della guerriglia contro l’invasore piemontese.

Da questi scritti, inventariati e catalogati da un apposito comitato scientifico – costituito da studiosi attivi presso la Fondazione di Studi Storici “Gaetano Raimondi” (Catanzaro) – emergono alcuni dati decisamente sorprendenti circa il livello culturale di alcuni importanti briganti, spesso definiti “cafoni”, o ritenuti soltanto (a volte non a torto) pericolosi criminali.

In modo particolare emergono considerazioni (scritte da esponenti di varie “bande”, peraltro operanti in zone diverse della Calabria[6]) che creano un interessante fil rouge con la Mitologia Classica sopra citata. In questi testi sono “evocati” personaggi come Ares, Atena, Milone di Crotone, Ulisse e altri ancora; vengono addirittura fatti riferimenti alla statuaria che lasciano increduli, poiché sembrano alludere ai Bronzi di Riace (che ovviamente non erano ancora stati scoperti, in quanto rinvenuti nei pressi di Riace Marina nel 1972).

Su questi “Diari della latitanza” si è basato il lavoro di Lagrotteria, il quale ha creato interessanti parallelismi pittorici tra epoche storiche e immaginari iconografici completamente distanti tra loro.

 

Cenni storici

Nel 1860, alla caduta del regime borbonico, il meridione venne annesso agli altri Stati già sotto il dominio di Casa Savoia, presentandosi all’appuntamento unitario in condizioni di profonda arretratezza e squilibrio sociale. La distribuzione della ricchezza, che traeva la sua unica fonte dalla produzione agricola, era ingiustamente ripartita fra un ristretto numero di latifondisti, mentre la grande massa di braccianti era praticamente ridotta alla fame.

Le premesse per una diffusa rivolta popolare erano già state “seminate” (per usare un termine che possa ricollegarci metaforicamente al tema della terra) e fomentate dalla propaganda borbonica, che incitava le masse dei diseredati a considerare i conquistatori piemontesi come il nuovo nemico da combattere.

Per circa dieci anni, tra il 1861 e il 1871, in quasi tutte le regioni del Mezzogiorno d’Italia si svolse uno scontro senza quartiere tra le bande dei briganti e l’esercito del Regno d’Italia, mandato a reprimerle.

Capitanati da ex braccianti, disertori, ex soldati borbonici e garibaldini, decine di migliaia di ribelli si diedero alla macchia, per dare inizio a una lotta direzionata su un duplice fronte: quello delle incursioni per depredare e razziare i ricchi proprietari terrieri e quello sul piano militare, contro l’esercito piemontese.

A questo lungo periodo di scontri e repressione, uno dei più sanguinosi del Risorgimento, non fece eccezione la Calabria che vide – al pari di altre regioni meridionali – il costituirsi di bande capitanate da personaggi diventati leggendari. Tra questi si ricordano: Pietro Monaco e la compagna Marianna Oliverio, detta “Ciccilla” (anch’ella brigantessa[7]); Pietro Corea e l’amante Rosaria Mancuso; Domenico Strafaci, detto “Palma”; Antonio Trapasso, detto “Gallo”; Vincenzo Macrini e altri ancora.

Tra Storia e leggenda, ribellione e banditismo, il fenomeno del brigantaggio è ancora oggi oggetto di studi e dibattiti.

È noto che vi siano diversi rapporti scritti, redatti da pubblici ufficiali, politici, o persone preposte a rappresentare l’autorità, conservati presso importanti archivi e biblioteche come l’Archivio di Stato di Reggio Calabria[8].

Queste relazioni avevano lo scopo di informare, in modo piuttosto dettagliato, sullo stato della lotta al brigantaggio nei vari territori (spesso si trattava di documenti assolutamente riservati, ad uso interno degli inquirenti, delle Prefetture, o dei politici incaricati di sovrintendere le varie operazioni). Tra questi materiali vi sono anche atti giudiziari emessi dalle Prefetture stesse. 

Inoltre, esiste un vasto patrimonio iconografico (fotografie, stampe, illustrazioni di vario genere; anche satiriche) che costituisce un importante “corredo” alle diverse documentazioni scritte. Era usanza abbastanza diffusa, ad esempio, fotografare i briganti dopo la loro cattura; a volte in posa e armati[9] (in gruppo o singolarmente), a volte morti in seguito a uno scontro a fuoco o ad un’esecuzione capitale[10].

Altre volte erano i briganti stessi (e le brigantesse) a ritrarsi.

I “Diari della latitanza” recentemente scoperti, costituiscono un ulteriore tassello alla documentazione storica relativa al controverso tema del brigantaggio.

 

I Diari della latitanza

Queste testimonianze sono contenute in 7 taccuini, alcuni dei quali corredati anche da schizzi e disegni[11]. Sono stati scritti dai succitati briganti Pietro Corea, Pietro Monaco, Vincenzo Macrini, Domenico Strafaci e Antonio Trapasso.

Non è escluso che esistano altri diari simili, ad opera di briganti attivi in regioni diverse.

In questo apparato riporteremo solo i brani a cui si è ispirato Massimo Lagrotteria per dar vita alle proprie opere.

Come si vedrà, un elemento che emerge costantemente da questi brani è la consapevolezza di come la morte sia un’ombra che accompagna “fedelmente” la vita dei briganti (inoltre, a questo proposito, si noterà l’inclinazione da parte degli autori verso un certo romanticismo di fondo).

Tutti i “Diari della latitanza” sono conservati presso la Fondazione di Studi Storici “Gaetano Raimondi” e consultabili previa richiesta scritta.

Sulla storia e le azioni dei briganti qui nominati, si invitano i lettori a consultare fonti storiche specifiche e dettagliate.

 

Il lavoro dell’artista

L’intervento di Massimo Lagrotteria è una sorta di rilettura “apocrifa” su un curioso incrocio fra Storia e Mitologia (forse, in questo caso, sarebbe più opportuno declinare il termine Mitologia al plurale…). Mediante la sua inconfondibile tecnica, l'artista ha realizzato opere che appaiono, ad una prima visione, tributi a personaggi appartenenti all’iconografia ellenica ed ellenistica (Ares, l’Amazzone Ferita, Atena, i Bronzi di Riace, Milone, Ulisse e la cosiddetta Testa di Basilea). Eppure, se affianchiamo i dipinti ai “Diari della latitanza”, emergono anche suggestive simmetrie.

In prima battuta, tutto questo può sembrare “solo” un divertissement dell’artista; come inserire un elemento che funga da “intruso” nel dipinto in cui viene ritratto Ulisse (un cappello da brigante).

Probabilmente sarebbe appropriato il termine gioco; poiché il gioco ha sempre una sua profonda radice di serietà.

Giocare con la Storia (lo suggeriscono anche la letteratura e il cinema) però non è uno scherzo. Può essere divertente, certo; ma il gioco DEVE essere tale. Proprio per questa ragione va preso con serietà, altrimenti rischia di non funzionare.

Dopodiché, nel profondo, ci sta ben altro.

Ma per leggere è necessario saper guardare.

 

Federico Baracchi

 


 

[1]    Cfr. Mario Truglia - “Amaroni – Da Maiurizzuni a San Nicola delle Magliolie a San Luca di Melicuccà – “Grafiche Falcone 2004 – pagg. 128-152

[2]    Cfr – Mario Truglia - ibidem

[3]  Fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate nell'Archivio centrale dello Stato Tribunali militari straordinari – Inventario a cura di Loretta De Felice -MINISTERO PER I BENI CULTURALI E AMBIENTALI UFFICIO CENTRALE PER I BENI ARCHIVISTICI 1998 – introduzione pagg. VII-VIII, e pag. 208

[4]    Questi scritti sono stati casualmente scoperti da un ricercatore della Fondazione di Studi Storici “Gaetano Raimondi”, mentre rovistava tra varie anticaglie a un mercatino dell’antiquariato di Squillace (Catanzaro).     

[5]    Ad esempio i Taccuini di Pietro Monaco (da egli stesso così denominati), in cui tutte le annotazioni sono opportunamente datate.  

[6]   Inizialmente si è supposto che questi “Diari della latitanza” potessero essere dei falsi, proprio per la singolare omogeneità stilistica e tematica contenuta in essi (dato curioso, effettivamente, in quanto scritti da persone diverse e attive in territori diversi). Dopo accurate analisi si è però optato, unanimemente, per un’attribuzione di originalità.

[7]    È doveroso ricordare che le brigantesse furono assai numerose, ed ebbero un ruolo di rilievo nella controversa storia del brigantaggio meridionale.

[8]   Diversi di questi documenti sono stati consultati e parzialmente riprodotti, ad esempio, su un interessante volume di recente pubblicazione: Il brigantaggio nella prima Calabria Ultra, di Isabella Loschiavo Prete (Città del Sole Edizioni, collana I tempi della storia, Reggio Calabria, 2010).

[9]    Si riteneva che fotografare i briganti armati e in atteggiamento spavaldo (cercando di ricreare una situazione iconografica il più possibile realistica) servisse a sottolineare la loro pericolosità.

[10]    Si ricorda qui il caso di Domenico Strafaci, la cui testa decapitata venne fotografata dopo l’uccisione.

[11]    Come il diario di Pietro Corea, nel quale è anche ritratta l’amante Rosaria Mancuso in posa da Amazzone Ferita (scultura di Policleto, realizzata nella seconda metà del V Secolo a.C., scomparsa e nota solo da copie romane, scolpita per il tempio di Artemide a Efeso).

 
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